Il film di Paolo Genovese e le analogie con la psicoterapia cognitivo comportamentale, che porta al cambiamento, anche quando sembra impossibile
di Paola Federici
Il film “The Place”del regista Paolo Genovese nei cinema italiani in questo periodo, si presta ad essere interpretato in chiave psicologica come un esempio delle strategie cognitivo comportamentali, tecniche utilizzate dagli psicologi specializzati in questo orientamento molto pragmatico, che conduce in molti casi, a soluzioni improvvise quanto inaspettate, di problemi che i pazienti si portavano dietro da anni e che sembravano irrisolvibili.
Ogni problema psicologico e di relazione, richiede che siano modificate delle premesse alla base del problema stesso, affinchè i risultati siano diversi. Il cambiamento è perciò il risultato di modificazioni. Se esse non avvengono, la situazione rimane tale e quale.
Questo metodo aiuta nel modificare e migliorare le relazioni umane, sia nell’ambito personale e familiare che lavorativo, per esempio. Ma le persone pensano che le cose possano cambiare da sole, senza muovere un dito per cambiare qualcosa nelle premesse.
Il film “The place” ha molte analogie con i trattamenti psicoterapeutici di tipo cognitivo-comportamentale, anche se il film spinge a estremismi che possono apparire assurdi, è solo spingendo le situazioni all’assurdo che i risultati possono cambiare.
Il protagonista – l’attore Valerio Mastrandrea – è uno sconosciuto che vive a un tavolino di un bar divenuto una specie di ufficio per lui, può far pensare a un santone, a un veggente, o a una sorta di psicologo sicuro di sè, ma un po’ stanco di esserlo. Per tutta la durata del film è seduto sempre allo stesso tavolo di un bar qualunque di una qualsiasi città, per tutto il giorno ascolta sconosciuti e i loro desideri più segreti, cercando nella sua grossa agenda nera il compito giusto per ognuno dei richiedenti aiuto.
L’analogia con lo psicoterapeuta è quasi d’obbligo. Perfino la barista glielo dice, in una delle sue confidenze serali, terminato il lavoro e lavato il pavimento, la donna indaga su di lui. I ruoli si rovesciano: non è più lui a fare domande, come fa per tutto il giorno, ma è lei, una Sabrina Ferilli insinuante e paziente, a sedersi di fronte allo sconosciuto del primo tavolo nell’angolo vicino alla vetrata. Con le sue domande la cameriera si insinua nella sua vita, senza demordere nonostante l’atteggiamento chiuso e demotivante dell’uomo.
Sera dopo sera, alla fine la donna ce la fa. Stimola riflessioni nell’uomo, gli pone domande fino a scardinare le sue sicurezze.
Il protagonista del resto, per tutta la durata del film, non fa altro che dare “compiti” ai richiedenti sconosciuti, dapprima, poi sempre più confidenziali, ogni giorno di più, quando tornano, per aggiornarlo sugli sviluppi delle loro vicende e sullo svolgimento dei compiti o sulle difficoltà incontrate in corso di svolgimento.
L’assurdità di tali compiti, che alcuni eseguono anche se controvoglia, mentre altri vi rinunciano per la scabrosità o la malvagità del compito stesso, mette un punto interrogativo su chi sia quell’uomo strano, intransigente ma infinitamente triste. Tanto che pare gli dispiaccia dare compiti cosi difficili, talvolta impossibili, senza i quali la vita delle persone non potrà cambiare di una virgola.
L’anziana che deve mettere la bomba davanti a un ristorante molto frequentato, ma non ce la fa a farla scoppiare e rinuncia, ma alla fine sa cosa vuole: si tiene la sua vita com’è e il marito ammalato, pur di non commettere una malvagità.
L’uomo che dovrebbe uccidere una bambina sconosciuta, per avere in cambio la guarigione del figlio, diventa consapevole della propria coscienza e umanità, la giovane moglie insoddisfatta che dovrebbe sedurre il vicino di casa, per mostrare a se stessa la propria potenzialità femminile, finisce invece vittima di questo suo potere, uccisa dallo stesso marito divenuto geloso, dopo che lei lo ha tradito col vicino, ligia al compito, agito però senza prendersi il tempo di riflettere su se stessa.
Una serie di situazioni, le infinite situazioni del nostro quotidiano, scorrono nel film , in quella grossa agenda consunta del protagonista che vorrebbe mantenersi indifferente, trincerandosi dietro il librone pieno di compiti assurdi, ma che non sa fingere l’enorme tristezza della propria esistenza solitaria, quando la cameriera paziente e insinuante, ma anche affettuosamente vicina, smuove le sue emozioni.
Quando i richiedenti eseguono il compito, qualcosa cambierà nella loro vita: che cambi in positivo o in negativo, non ha poi cosi tanta importanza. L’importante è che si provochi il cambiamento, dal quale la persona rinascerà. O si perderà.
A un certo punto il protagonista dirà a uno dei richiedenti, che se il compito affidatogli è per lui troppo difficile, potrà anche decidere di non accettarlo. Ma in tal modo non potrà realizzare il suo desiderio.
E’ evidente l’analogia con i compiti che lo psicoterapeuta cognitivista affida al paziente, che egli può accettare, rifiutare o sostituire con compiti diversi. E chi glielo vieta?
Infatti il protagonista pseudo-psicologo, a un certo punto spiegherà proprio questo alla cameriera-Ferilli, che lo accusa di spingere le persone bisognose di aiuto, verso il male. Le risponderà che nessuno di loro è obbligato, ma che la soluzione da lui pensata è soltanto una delle possibilità. Che esistono altre possibilità, altri comportamenti, che le persone possono decidere altrimenti.
Non è questo che lo psicoterapeuta cerca di ottenere coi suoi pazienti? Porre davanti ai loro occhi le svariate possibilità di azione, di soluzioni ai loro problemi, aiutarli ad avere maggiore fiducia nelle proprie risorse, cercare le vie d’uscita proprie, uscire dai binari prestabiliti, se necessario, per stare meglio, per vivere meglio, per vivere la propria vita e non quella degli altri.
L’originalità del film sta proprio in questa bellissima scoperta che è, in realtà, alla portata di tutti. Possiamo agire diversamente se non stiamo bene o ci sentiamo costretti in condizioni che non ci appartengono. Spesso non utilizziamo le innumerevoli possibilità che abbiamo, ci costruiamo la nostra barriera, come il topolino che continua a correre dentro la ruota fino a sfiancarsi, ma non si accorge della porticina aperta per uscire dalla ruota in movimento.
Tutti abbiamo delle porte aperte, ma è necessario che ce ne rendiamo conto.
La psicoterapia ha questo obiettivo, mostrarci le innumerevoli strade aperte davanti a noi. E farci trovare il coraggio di modificare i vecchi schemi quando questi diventano delle prigioni. E qui sta il nucleo del film, cosi tipicamente analogo al lavoro dello psicoterapeuta.
Paola Federici – Psicologa Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e Tecniche EMDR – Psicoterapie brevi e Autogene